Jordan Tinti, in arte Jordan Jeffrey Baby, sono i nomi del giovane trapper trovato morto sucida nel carcere di Pavia, il giorno 12 Marzo 2024. Nomi ed appellativi, giudizi, spesso non proprio cortesi, sono ciò che restano a significare l’esistenza di questo ragazzo. Puri segni, riproposti in fiumi di inchiostro, parole, pixels, come quelli che ora tu, caro lettore, stai osservando, e che io, ragazzo della stessa età di Jordan, sto generando.
Ebbene sì, (mi si perdoni il tono informale), Jordan era del 1997 proprio come me, e, sebbene non apprezzassi troppo il personaggio che si era un po’ forzatamente disegnato, la notizia della sua morte ha smosso qualcosa nella mia coscienza. Perché in fondo potevo essere io. Perché in fondo, dietro quei segni, quelle immagini, dietro quei tatuaggi sul volto, persino dietro le sue condannabili azioni, c’era qualcosa che noi umani siamo soliti chiamare vita.
A ben vedere la vita di Jordan era ormai quella che il filosofo Giorgio Agamben chiamerebbe “nuda vita” riferendosi al concetto di homo sacer nel diritto romano. Una vita insacrificabile e allo stesso tempo uccidibile impunemente. Una vita che non conta più per gli dei (in quanto impura), ma soprattutto non conta più per il diritto umano, il quale le è indifferente.
Ma è davvero così che dobbiamo considerare la vita nel carcere? Qual è la funzione di un’istituzione quale è il carcere? Quella di un luogo atto a reintegrare la persona nella società, o quello di una pattumiera, di una discarica di rifiuti?
Se vorrai darmi attenzione, in questo articolo vorrei provare a riflettere con te sulla morte di Jordan Jeffrey baby, sulla sua vita, e sul valore che diamo al successo e al carcere. Un tentativo per ricordare Jordan e rendere dignità alla sua morte, attribuendole il senso d’un sacrificio. Sacrificio ai nostri dei, ovvero a quelli che dovrebbero essere i valori della nostra società.
Ma prima di iniziare, una sintesi di ciò che troverai nell'articolo che stai per leggere:
Chi era Jordan Jeffrey Baby?
Jordan Tinti, questo ragazzo morto suicida all’età di 26 anni, di cui ci accingiamo a parlare, ci è dato conoscerlo attraverso il suo personaggio, le sue comparse, le sue canzoni, attraverso i suoi segni esteriori.
Dunque procediamo da lì
Jordan Jeffrey Baby, con il nome per il quale i più lo conoscevano, era un rapper/trapper di quelli divisivi. Cercava di scandalizzare, di far palare di sé, dai tatuaggi sul viso allo strano look maculato della sua pettinatura. Proprio per questa sua irriverenza, della carriera dell’artista si ricordano forse più le “marachelle” nelle instagram stories, che la musica.
Tra le tante malefatte ricordiamo l’uso di stupefacenti in video, l’aver urinato sulle denunce della polizia, o l’esser salito per sfregio su un’auto dei carabinieri… Insomma, il ragazzo ne ha provate di ogni per attirare attenzioni, e in parte ce l’ha fatta, ma forse ottenendo quelle sbagliate.
Jordan Jeffrey Baby in TV da Giletti
Jordan venne infatti invitato nella trasmissione televisiva di Massimo Giletti (qui il video), ma come è solito accadere in questi casi, fu strumentalizzato per parlare della cattiva influenza della trap. Fu presentato come il “trapper malsano” di turno, come il “giovane bruciato” rappresentante di una generazione decadente in preda alla febbre da social network e che farebbe di tutto per il successo.
Su questo, però, Jordan Jeffrey Baby era schietto ed onesto: i suoi atti scandalistici, facevano parte di una «strategia», servivano a «colmare un gap rispetto alla concorrenza artistica». Queste le sue risposte alle accuse della tv. Perché all’età di 21 anni, Jordan si sentiva già indietro, era già in ritardo sulla tabella di marcia per il successo.
Eppure in quell’intervista, pur se solo per un momento, apparve anche un altro volto del trapper.
Jordan parlò del rapporto perduto con la madre, della vita trascorsa solo con il papà, dei tanti lavori e del rapporto con la droga. Un volto più umano, quello vero, in cui traspare la vita di cui parlavamo. La vita di un ventenne confuso, tossicodipendente e con problemi familiari si intreccia con l’immagine del trapper alla ricerca disperata di riconoscimento.
La musica e le rime sul suicidio
«Tutto questo è il mezzo, la musica è il fine». Nell’intervista da Giletti, parlando dei suoi comportamenti illeciti, Jordan dice anche questo. Rivendica inoltre il titolo d’artista, anche se un po’ sbeffeggiato dagli interlocutori.
Ma com’era la sua musica?
Beh, mi sento di poter dire che Jordan non era tutta fuffa. Era un rapper capace. Aveva flow, belle metriche, bell’attitudine, e se ai più puristi potrebbero dar fastidio i testi di basso contenuto, vorrei dire che in qualche barra, con la giusta attenzione, si poteva scorgere verità, vita.
Tuttavia, vorrei soffermarmi su una canzone in particolare, il brano “Bipolare” presente nell’album Dr. Jeffrey & Mr. Hype, in cui il trapper scrive: «bipolare cattivo, se non sfondo mi uccido».
In questa frase, Jordan, esprime più che semplice retorica da rapper. Ascoltata dopo la notizia della morte, fa quasi rabbrividire. Non voglio ritenere che Jordan si sia ammazzato perché sentiva di aver fallito, ma che in quella frase, così come nei suoi comportamenti e nelle sue dichiarazioni (si veda anche l’intervista degli Arcade Boyz in cui traspare l’umanità del ragazzo), sia presente la mentalità deleteria che ha contribuito a distruggerlo.
Jordan Jeffrey Baby e la schiavitù dell’hype
Jordan Jeffrey Baby con la sua rudimentale guerrilla marketing da social non ha ottenuto i risultati sperati. La sua musica è passata in secondo piano e la sua esistenza è finita in un vortice di dissoluzione che lo ha condotto in carcere.
La sua visione del mondo però non era del tutto fuori ragione. Jordan rappresentava la fretta, la competizione, la realtà di una società per cui «la musica è 10% talento musicale e 90% intrattenimento» (becero, aggiungerei). Jordan Jeffrey Baby era figlio e segno di una realtà per cui ti senti «costretto» a dare spettacolo, a correre affanosamente, a scambiare la tua dignità per un briciolo di visibilità.
Un mondo in cui tutto è sempre più rapido. Una realtà fatta d’ansie, in cui a 21 anni sei già in ritardo, a 26 sei già morto. Jordan Jeffrey Baby incarnava l’ideologia del successo fast e della schiavitù dell’hype. Una condizione in cui si è pronti a far tutto pur di farcela, in alternativa è meglio morire.
In questo la TV e il signor Giletti potrebbero aver ragione se solo non sbagliassero i modi e soprattutto la mira. Jordan non era il problema, i giovani non sono il problema, e in fondo non lo sono neanche i social. Il problema è la mentalità generata dal meccanismo di una macchina che ha ormai perduto i freni e che è costretta a produrre senza sosta e senza alcun senso e cognizione.
Il problema è della società che rivela, effettuandola nei suoi meccanismi, la visione marcia di cui parlava Jordan Tinti e che, per giunta, non tutela il cittadino, ma al contrario lo vizia, lo sbeffeggia e poi lo lascia morire.
L’arresto e la morte in carcere
Jordan Jeffrey Baby è stato trovato morto nel carcere di Torre del Gallo a Pavia il 12 marzo. Pare si tratti di suicidio per impiccamento, anche se l’avvocato e la famiglia sollecitano ulteriori indagini sull’accaduto. Jordan stava scontando una pena di 4 anni e 4 mesi per rapina a mano armata con aggravante per odio razziale ai danni di un operaio nigeriano. Con lui c’era un altro trapper, Traffik, e i due avevano postato il video del crimine sui social. Definitivamente l’ultimo atto di “follia d’hype” per il ragazzo.
Le violenze, i tentati suicidi e la comunità
Jordan aveva già tentato il suicidio, era cosa risaputa, fuori e dentro il carcere. Il rapper aveva denunciato violenze sessuali da altri detenuti, era terrorizzato e depresso, scriveva disperate lettere al padre in procinto di ammazzarsi: «ho ceduto e perso la mia più importante battaglia: quella contro la depressione che mi affligge da mesi ormai».
Ritenuta pericolosa la sua condizione e pregiudiziale la permanenza in carcere, il magistrato di Sorveglianza aveva acconsentito all’affidamento terapeutico in comunità, data, per giunta, la tossicodipendenza del detenuto. Questa fu però repentinamente annullata quando rinvenute nella stanza dell’artista «un cellulare e delle sigarette».
Il 26enne, dunque, è stato ricollocato nella cella d’origine, luogo di maltrattamenti, violenze e tentati suicidi.
Ultime riflessioni: nuda vita e cruda morte
Il trattamento riservato a Jordan Tinti da parte delle istituzioni è eticamente deprecabile.
A tal proposito si legga l’articolo 27 della Costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».
Il carcere dovrebbe rieducare, occuparsi di reintegrare la persona e non lasciarla morire, costringerla disumanamente in una condizione che pregiudica la sua sopravvivenza. Il diritto umano se n’è lavato le mani di una (nuda) vita come quella di Jordan, e ora, sembra che addirittura la sua morte debba subire la stessa condanna.
Sarebbe inoltre corretto chiedersi:
“Come mai una vita che è stata strumentalizzata per parlare della corruzione della gioventù e della violenza ai danni delle istituzioni, non viene menzionata e “strumentalizzata” per parlare della situazione delle carceri e della violenza delle istituzioni?”
Giustizia non è da ricercare nelle autopsie e nei processi, ma nella rimessa in questione della vita (e della morte) di Jordan sul piano sociale. Il giusto trattamento sarebbe riservargli almeno la sacrificabilità. Quella in nome dei valori della comunità, così che la sua morte possa significare qualcosa per la nostra vita.
Noi di Content Shake ci stringiamo al dolore della famiglia Tinti. Riposa in pace Jordan, che tu sia libero e sereno, lontano da quelle grate.